Dio e Cesare: cosa dare a chi

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXIX Domenica del tempo ordinario - anno A

Le letture evangeliche delle scorse domeniche ci hanno informato che la crisi fra Gesù e le autorità giudaiche si andava aggravando. Le sue accuse contro di loro, nascoste nelle parabole, erano diventate insopportabili. Visto che il tentativo di arrestarlo non era riuscito a causa della gente che lo riteneva un profeta (Mt 21,45), i gerarchi del Tempio decidono di fare sul serio, tengono un summit e programmano un attacco per gradi. Bisognava cominciare con il metterlo in cattiva luce presso i Romani, che non avevano certo paura della gente. Con intelligenza politica sopraffina gli pongono la nota domanda trabocchetto: “È lecito pagare le tasse ai Romani?”.

Se avesse risposto di sì, sarebbe apparso un collaborazionista dello straniero occupante e avrebbe perso la simpatia e l’appoggio del popolo; se avesse risposto no, c’era di che accusarlo presso il governatore. D’altra parte non si trattava tanto di una domanda a carattere fiscale, quanto piuttosto di una questione ideologico-religiosa: pagare il tributo a un re pagano, quale era Tiberio, equivaleva a riconoscerlo come dio. Su questo argomento però i giudei non erano concordi nell’adottare comportamenti pratici: il partito dei sadducei era praticamente in combutta con Roma, che garantiva loro il potere e perciò facevano finta di non vedere; i farisei traccheggiavano in attesa di momenti migliori; gli zeloti invece conducevano un’opposizione irriducibile e avevano anche il loro braccio armato, detto dei “sicari”.

Non a caso la delegazione che andò da Gesù era composta da farisei e da partigiani di Erode: data la loro collocazione politica intermedia, la domanda poteva apparire del tutto disinteressata. Inoltre ebbero l’avvertenza di introdursi con un discorso molto complimentoso (Mt 22,16). Gesù, che non era uno sprovveduto, intuì l’intenzione di intrappolarlo. Prima di rispondere chiese di vedere la moneta con cui si pagava il tributo. Su di essa c’era l’immagine dell’imperatore romano del momento, con l’iscrizione latina che diceva “Tiberio Cesare Augusto, figlio del divino Augusto, pontefice massimo”.

Lo scenario in cui si svolge l’episodio è l’area del Tempio. L’immagine dell’imperatore, considerato un dio, offendeva la dignità del luogo. Mostrandogli il denaro, provavano essi stessi la propria colpevolezza. Quel denaro del resto era utilizzato non solo per pagare il tributo, ma anche per le attività commerciali, per le disinvolte transazioni finanziarie, che l’organizzazione imperiale agevolava. Esse sarebbero state ben più misere, senza la rete stradale, i trasporti, la difesa dai briganti, la navigazione, che Roma assicurava. In fondo anche loro accettavano di sottostare al suo potere. Alla domanda di Gesù, di chi fosse quell’immagine, correttamente risposero: “Di Cesare”. La risposta è universalmente nota: “Date dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Nota l’evangelista che se ne andarono scornati. L’interpretazione che se ne dà, di solito, è politicamente corretta.

Gesù però probabilmente non l’ha mai pensata; né lui, né Matteo, né la comunità cristiana primitiva. Semplicemente perché allora il problema non si poneva. Esso si pose solo in tempi molto posteriori: nel Medioevo, ad esempio, al tempo delle lotte fra Impero e Papato, nel Rinascimento e più recentemente quando nacque il concetto di Stato liberale. Fu allora che si assunse il detto di Gesù per giustificare la necessaria divisione fra politica e religione, fra Stato e Chiesa. Se Gesù l’avesse intesa così, avrebbe messo su lo stesso piano Dio e l’imperatore: date a ciascuno il suo e il problema è risolto. È difficile sostenerlo senza rasentare la blasfemia. Gesù in realtà intendeva parlare di tutt’altro. Gli antichi Padri della Chiesa ne diedero l’interpretazione autentica. Si domandarono semplicemente: che cosa dobbiamo a Dio? Risposero: tutto, corpo, anima, volontà. Che cosa dobbiamo a Cesare? La moneta. Essa rappresenta tutto ciò che ci impedisce di seguire il Signore, liberi dalla malizia (Origene).

Il detto di Gesù non esorta dunque ad instaurare una tranquilla divisione degli ambiti e rapporti di buon vicinato, ma chiama ad una scelta radicale. In un’altra occasione aveva detto: “Non potete servire Dio e il denaro”. Il detto di Gesù non solo non fu tranquillizzante, ma provocatorio nei confronti del potere politico, con cui aveva a che fare, e verso cui esprimeva un giudizio: voi farisei state con Dio o con Cesare? Se state con Dio, la vostra domanda è superflua; liberatevi di quanto vi impedisce di seguirlo e il problema del tributo a Roma è risolto. Probabilmente la delegazione la comprese così, visto che se ne andarono con la coda fra le gambe. Essi l’avevano messa su di un piano limitato alla politica, Gesù la spostò sul piano escatologico dei rapporti decisivi con Dio. Lo Stato e Dio non possono essere sullo stesso piano. Il detto di Gesù non provoca forse anche noi, oggi?

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi