Educare all’arte della Bellezza

Proseguono gli interventi dedicati all’emergenza educativa, che sarà il tema portante della pastorale in Italia fino al 2020

Affermare che l’educazione all’arte sia un compito importante è un’affermazione che esige d’essere chiarita. Spesso l’arte è sinonimo di gusto estetico, identificando questo con un vago sentire artistico soggettivo. Il concetto stesso di arte non è oggi universalmente univoco. L’adagio “Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace” è sintomatico di un certo modo di intendere l’arte oggi. Un contesto di cultura che oblia l’assoluto ed esalta il relativo ci costringe a riflettere sul binomio “educazione-arte”, e invita a sfrondare il nostro oggetto da orpelli per non scivolare nel mare magnum dei luoghi comuni. Sono molti a ritenere incomprensibile la necessità di “educare” all’arte. Oggi si accampano sempre più diritti di cittadinanza per il relativismo e il soggettivismo su questioni vitali; la stessa prospettiva varrebbe anche per l’arte. È perciò necessario chiarire il termine “arte” distinguendo l’accezione che concerne l’ontologia da quella puramente nominalistica. È doveroso specificare: ma quale arte? Educare responsabilmente all’arte per noi è educare all’incontro con la bellezza, educare all’arte della Bellezza (il maiuscolo per noi qui è d’obbligo). I termini della questioneDue sono i termini da chiarire: educare e bellezza. Il significato etimologico del primo è noto: deriva dal latino e-ducere, ossia condurre fuori, manifestare qual-cosa di nascosto. Per una prospettiva antropologica emancipata da strumentalizzazioni ideologico-utilitaristiche, il termine rimanda ad una riflessione articolata. La riflessione parte da una domanda a fronte di molteplici osservazioni gravide di responsabilità: quale è la res, la “cosa”, ossia l’oggetto dell’educare; l’educatore, nella sua azione verso l’educando, quale oggetto sostanziale vuole far emergere? Ma chi è l’educatore e quale res ritiene di dover far emergere dall’educando? È ragionevole pensare che alla qualità morale dell’educatore corrisponderà la qualità morale della res che cercherà di far emergere dall’educando. L’educatore che ama il grottesco, educherà al grottesco; quello che ama l’armonia, educherà all’armonia. È riduttivo dire che bisogna “educare all’arte per l’arte”. Questa prima analisi, in prospettiva filosofico-antropologica del primo termine, evidenzia che l’oggetto di cui predica l’educare non può essere univoco. Bene, chiarito il primo aspetto, diciamo che la res che impegna l’educazione all’arte, per noi, è la Bellezza. Educare alla bellezza come virtùL’educatore ha il compito di suscitare nell’educando l’empatia anche solo verso la possibilità della conoscenza dell’arte della Bellezza come tale. Si tratta di coltivare l’intuizione di cui è capace la natura umana. Possiamo dire che la Bellezza va considerata a pieno titolo una virtù a fianco della prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. È ragionevole e condivisibile ritenere che l’intuizione del Bello sia una positiva predisposizione concomitante all’anelito della ragione e della volontà, rispettivamente al Vero e al Bene, come lo sono le altre virtù. Questo tipo d’intuizione è una naturale inclinazione che rifugge la disarmonia. E quale ontologica inclinazione al Bene e al Vero, la Bellezza, come tale, esige d’essere coltivata e protetta. Come le virtù cardinali, la predisposizione alla Bellezza deve essere suscitata ancor prima del suo naturale manifestarsi sensibile; predisposizione che necessita d’essere riscattata, conquistata – quando essa non è ancora habitus formale dell’agire artistico originale del singolo. Bisogna dunque educare alla virtù della Bellezza. Il Bello attrae a sé per sua natura, così come la vita è diffusiva per sua natura. Come gli esseri inferiori sono agiti dalle leggi di natura, manifeste in varie forme naturali estetiche, così l’uomo è agito anche dal Principio primo della Bellezza, di cui la manifestazione più sensibile e sublime è la capacità di intuire e interpretare la “divina proporzione”, che attrae a sé e fa amare le cose. Bellezza, esistenza, societàUna delle espressioni della comunicazione sociale, tra le più adeguate allo spirito umano, è l’arte della Bellezza come forma di comunicazione. L’uomo in genere tende a comunicare, a trasmettere, a tràdere, innanzitutto ciò che l’aiuta a vivere. Uno degli aspetti imprescindibili, come bene degno della civile convivenza, credo si debba ritenere l’educazione sociale all’arte secondo la nostra accezione, a che ogni persona si consideri destinataria della Bellezza. L’iconografia occupa, infatti, un’ampia parte dell’espressività artistica: dai graffiti del 5.000 a. C. per passare a pittura e scultura romana e greca, fino a giungere a quella contemporanea. Via via, tutte le più belle e differenti forme dell’arte, musica e pittura, scultura e architettura, hanno accompagnato, sostanziato per millenni la comunicazione sociale, come linguaggio attraverso il quale l’uomo è andato costruendo la cultura sociale. L’uomo immagine di DioDunque, educare all’arte della Bellezza – di cui l’estetica è solo un aspetto contingente, che deve essere ordinato al Vero e al Bene – vuol dire educare la persona a riscoprire se stessa come luogo ontologico dove la Bellezza divina dimora e vive; luogo dove tale Bellezza attende d’essere pienamente accolta e partecipata. Ciò attraverso l’assunzione libera di forme adeguate alla sua Verità; luogo dove la volontà dell’educando è pro-vocata ad acconsentirle, di transitare dall’invisibile al visibile, e dall’eternità al tempo; acconsentirle di traslare dal trascendente al contingente, assimilandosi alla materia. In altre parole l’educatore sollecita, guida e accompagna l’educando a fare l’esperienza di un agire nel quale la coscienza apprende e la mente conosce la strada che dal tempo conduce all’eternità, la via che dal mortale accede all’immortale. La grande opera d’arte, che l’uomo descrive è nel suo stesso essere; come res tra quelle create, indica che “l’uomo-opera” è davvero la “cosa molto buona”, e che tale sua adeguata bontà riflette e domanda la conformità all’immagine della Bontà e Bellezza divina. Ma il Divino come Bellezza si è reso manifesto nella grande opera d’arte che è il volto dell’uomo, prima, e quale perfezione assoluta, nel Dio-Uomo, poi. In fondo la Rivelazione cristiana è stata l’unica capace di indicare l’uomo come capax Dei. Ergo, per analogia possiamo affermare, homo capax Pulchritudinis Dei, l’uomo è capace della Bellezza divina.

AUTORE: Don Antonio De Paolis