Gesù crea la comunicazione

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXIII Domenica del tempo ordinario - anno B

Dall’ascolto dei Vangeli domenicali stiamo imparando che i diversi brani sono collegati come gli anelli di una catena: ogni anello trova il suo significato in collegamento a ciò che lo precede e che lo segue. È questo il senso della parola “contesto”, che abbiamo utilizzato ultimamente (dovremmo imparare a leggere i Vangeli nella loro interezza). Anche nell’ascolto del brano di oggi dobbiamo pertanto ricollegarci al contesto. Come ricordiamo, Gesù ha sfamato miracolosamente una folla di persone, in terra d’Israele (Mc 6,30-43). Poi ha avuto una grossa discussione con i farisei sulle tradizioni dei loro padri e le esigenze di Dio (Mc 7,1.13).

In seguito si dirigerà verso nord, l’attuale Libano, allora territorio pagano, dove guarirà una bambina, su insistenza della madre. Oggi si narra che, di ritorno da quella zona, si diresse verso la zona orientale del lago di Galilea, abitata da popolazioni pagane. Là guarirà un sordomuto che gli viene presentato da alcuni del posto. Altra cosa che stiamo imparando, dalla partecipazione alla liturgia domenicale, è che gli evangelisti, nel raccontare episodi della vita di Gesù, hanno sempre scopi catechetici. Allora si rivolgevano ai cristiani delle loro comunità; oggi si rivolgono a noi. Per capire la catechesi nascosta nella narrazione di oggi, bisogna fare attenzione ai molti elementi del racconto. Al centro troviamo un sordomuto, che alcuni del posto presentano a Gesù e che lui guarisce. I termini con cui Marco riferisce l’episodio richiamano da vicino il brano profetico di Isaia che abbiamo ascoltato come prima lettura (Is 35,4-7).

Isaia, che è anche un grande poeta, canta la venuta del regno di Dio servendosi di metafore molto vive e brillanti. È un inno alla gioia che si apre con un grido inaspettato: “Ecco il vostro Dio”. Come dire: alzate gli occhi, guardate, Egli sta arrivando e con Lui arriva la liberazione. L’inno sale ancora di tono e diventa lirica pura: risuonano parole di gioia, gaudio, giubilo, letizia. Appaiono in primo piano occhi di ciechi che improvvisamente si aprono, padiglioni di orecchie che cominciano a funzionare, zoppi che non si limitano a camminare ma saltano come cervi, lingue di sordomuti che non solo parlano correntemente, ma alzano grida festose.

La corrente di gioia contagia poeticamente anche la natura, tanto che il deserto, la terra arida, la steppa sono trasformate in acqua, torrenti, stagni, sorgenti. Il profeta innalzava questo cantico al “Dio che viene” per risvegliare la speranza degli esiliati in Babilonia, terra pagana dove si adoravano idoli muti, “che hanno bocca e non parlano, hanno orecchi e non odono, non c’è respiro nella loro bocca (Sl 113,14). Anche il sordomuto della Decapoli vive in terra pagana, dove il Figlio di Dio porta le primizie della salvezza. La sua guarigione ne è un simbolo.

Torniamo a guardare da vicino la scena di Gesù con il sordomuto, soli, lontani dalla folla. Gesù non dice al povero uomo: “ascolta!” o “parla!” ma “apriti!”. Strano: dire a un sordo “apriti!” è lo stesso che non dirgli niente, perché non può sentire. Ma il Cristo è la Parola creatrice, che varca il muro della sordità, creando un modo nuovo di ascoltare. Lo fa compiendo gesti apparentemente strani: gli mette le dita nelle orecchie e gli tocca lingua con il dito bagnato di saliva. Senza dubbio per far comprendere che Dio, nel suo Figlio, viene fisicamente in contatto con il nostro male. Con un sospiro profondo, alzati occhi al Padre, dice: “Effatà”, antica parola aramaica che vuol dire “apriti!” (la comunità cristiana ha conservato questa parola nella liturgia battesimale, sebbene sia diventata incomprensibile).

Quella saliva è il segno che Egli mette la propria Parola sulla bocca del muto, aprendogli così una nuova via di comunicazione, con Dio e i propri simili. La comunicazione. Ogni sforzo missionario ha sempre inizio con il tentativo di ascoltarsi e di parlarsi. Cosa niente affatto scontata. Al tempo dell’evangelista Marco, ad esempio, mai un buon giudeo avrebbe pensato di entrare in comunicazione con un pagano. Fu a lungo una difficoltà anche all’interno della comunità cristiana, composta di ebrei e pagani diventati cristiani. L’evangelista ricorda loro che l’ebreo Gesù non solo è andato in territorio pagano, ma è arrivato a toccare la lingua di un sordomuto pagano.

Nel nostro secolo la comunicazione è diventata istantanea grazie ai progressi scientifici e tecnologici. Ma questo non è bastato per liberare gli uomini dalla prigione dei propri schemi mentali, dai conformismi sociali, da certe tradizioni culturali che li rendono praticamente incomunicabili. Non sembra che internet, fino ad oggi, abbia permesso di capirci meglio di prima. È necessario che ciascuno si lasci mettere da Gesù il dito nelle orecchie e porre la sua Parola sulla bocca. Solo così diverremo anche noi comunicabili. Anche via internet.

AUTORE: Bruno Pennacchini, Esegeta, già docente all’Ita di Assisi