Giobbe aveva torto, e ragione

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini V Domenica del tempo ordinario - anno B

La liturgia di questa domenica si apre su una figura tanto celebre quanto mal conosciuta: Giobbe, il pazientissimo Giobbe. Chi era Giobbe? Va detto subito che non si tratta di una persona storica nel senso di Gesù Cristo, di Giulio Cesare o di Dante Alighieri… Giobbe è un personaggio letterario, metafora di ogni uomo che incappa nella sventura senza averne colpa. La Bibbia lo presenta come un uomo straordinariamente felice, ricchissimo, saggio, con un profondo rapporto con Dio. Il migliore degli orientali. Il libro biblico che porta il suo nome – tra i più forti nella letteratura di tutti i tempi – racconta che Giobbe, oltre a possedere un patrimonio impressionante, aveva dieci figli, di cui tre femmine, una più bella dell’altra. Nel giro di qualche ora perde tutto: in una razzia improvvisa, i beduini gli rubano tutto il bestiame e ne uccidono anche i pastori. In un terremoto gli muoiono tutti insieme i dieci figli, mentre banchettavano felicemente in casa del fratello maggiore. Come se non bastasse, Giobbe è colpito da una malattia schifosissima, che lo costringe a uscire di casa e a sdraiarsi in un letamaio. Anche la moglie lo abbandona e lo deride, perché tutto questo gli accade nonostante la sua devozione. Come reagisce Giobbe di fronte alla catastrofe? Il racconto biblico coglie sulla sua bocca queste parole: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il Nome del Signore”.

Fin qui tutto edificante e tranquillo. Il dramma scoppia quando arrivano tre vecchi amici, altolocati, conformisti, che sostengono di essere venuti per “consolarlo”. In realtà il loro vero scopo è sostenere la mentalità corrente: accusare Giobbe e difendere Dio. Se sei ridotto così, vuol dire che sei gravemente colpevole; è chiarissimo; così è la vita; del resto siamo nati per soffrire; Dio non può essere tuo amico, come affermi; ammettilo, pentiti, e forse Dio ti perdonerà. (Sono trascorsi parecchi secoli da quando ispirò Dio queste pagine; ma sembrano scritte proprio oggi!).

A questo punto la tradizionale pazienza di Giobbe scompare. Al suo posto appare un Giobbe inferocito, che affronta i finti consolatori con una foga inaspettata: loro parlano a orecchio, per sentito dire; la sofferenza vissuta sulla propria pelle è un’altra cosa; non c’è proporzione fra gli eventuali peccati della sua giovinezza e quello che ora sta sostenendo; che provino a mettere tutto sui piatti della bilancia e se ne accorgeranno. Poi Giobbe ha l’ardire di rivolgersi a Dio, con aria di sfida e gli domanda: “Perché a me? Che cosa ti ho fatto, perché mi tratti così? Vieni fuori, discutiamo!”. Dio non risponderà alle provocazioni di Giobbe. Lo metterà semplicemente davanti alla complessità del creato, di cui Giobbe non conosce né l’origine, né le leggi che lo regolano.

Come si permette, lui che non comprende le cose, che pure sono alla sua portata, di chiedere conto di ciò che è più grande di lui! Eppure alla fine c’è una sorpresa: Dio dirà che Giobbe ha parlato correttamente e con sincerità, a differenza degli amici, paurosi e conformisti. Il ribelle Giobbe ha ragione. Di fronte a questo gigante solitario, il Vangelo secondo Marco oggi presenta un coro di malati, miseri e silenziosi, che al tramonto del sabato cercano Gesù per essere guariti dai loro malanni. Li aveva preceduti, forse già nella tarda mattinata, dopo i riti sinagogali, un’anziana signora, febbricitante, suocera di san Pietro. All’ingresso di Gesù in casa, gli parlarono di lei e della sua malattia. Racconta Marco che egli la prese per la mano e la “fece rialzare” (il testo greco dice letteralmente: la “risuscitò”). Poi lei li servì a tavola.

Verso sera, arrivarono in folla malati di ogni tipo e Gesù li guarì. Narrando questo stesso episodio, l’evangelista Matteo lo commenta così: “Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Is 53,4). Come dire che Gesù non discute con il Padre sul perché della sofferenza, ma semplicemente se ne fa carico. Le infermità fisiche erano considerate effetto della presenza del Maligno. “Per invidia del diavolo, la morte entrò nel mondo” (Sap 2,24).

Le guarigioni fisiche sono il segno che la signoria di Dio si è fatta vicina. È l’incredibile risposta di Gesù alle domande dei tanti Giobbe, di ieri e di oggi. Racconta ancora Marco che Gesù si era ritirato in preghiera, lontano dalla confusione, già prima che si facesse giorno. Lo cercarono, finalmente lo scovarono e gli dissero che in tanti lo stavano aspettando. Cercavano un guaritore e trovavano un uomo a colloquio con il Padre: “Venga il tuo Regno”. Più che la vicinanza del regno di Dio, alla gente premeva la salute fisica. Gesù non faceva il guaritore di professione, ma annunciava il Regno. E anziché tornare a Cafarnao, invitò i suoi cercatori a seguirlo verso altri villaggi della Galilea.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi