I criteri etici del Re-Pastore

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXXIV Domenica del tempo ordinario Cristo Re - anno A

Per molti di noi non è facile comprendere il titolo di questa ultima domenica dell’anno liturgico: “Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo”. La mente ci va spontaneamente alle attuali, residue istituzioni monarchiche, in cui re e regine non hanno in genere un vero potere, ma sono solo figure rappresentative. Non così Gesù. Per uscire dall’equivoco dobbiamo entrare nel linguaggio della Bibbia, che oggi si riflette ampiamente nella liturgia. Nella prima lettura, il profeta Ezechiele riferisce le parole del Signore: “Io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna, come un pastore… andrò in cerca della pecora perduta… fascerò quella ferita… avrò cura della grassa e della forte” (34,15) E più avanti aggiunge: “Io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri” (34,17).

Subito dopo l’assemblea risponde cantando il Salmo 22: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”. Dalla seconda lettura ascolteremo l’apostolo Paolo che scrive alla comunità cristiana che si radunava a Corinto: “È necessario infatti che Egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte” (1 Cor 15,25). L’immagine del re e quella del pastore si sovrappongono e si fondono: siamo di fronte alla figura del Re-Pastore, annunciato dai profeti. Solo sapendo ascoltare insieme questi testi possiamo entrare nella pienezza del loro significato.

Il Vangelo di oggi è noto a molti, almeno per avere ispirato grandi artisti cristiani. Esso però va letto non come una sorta di sceneggiatura del giudizio universale – come spesso capita – ma piuttosto come una parabola, che ha come punto focale il criterio con cui Dio valuterà i nostri comportamenti: la misericordia. È l’ultimo discorso che Matteo coglie sulla bocca dei Gesù. Nei capitoli successivi narrerà la vicenda della sua passione, morte, risurrezione. Protagonista assoluto della parabola è il “Figlio dell’uomo che verrà nella sua gloria” (Mt 25,31). Questa figura compare nel libro del profeta Daniele (7,14), che assiste in sogno a una liturgia celeste: un uomo è condotto dinnanzi al trono di Dio Padre, che gli concede “dominio, gloria e regno, perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo servano.

Il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non sarà distrutto”. Gesù ripetutamente identificò se stesso con questa figura regale, che rimanda misteriosamente anche alla debolezza della sua umanità (l’espressione “figlio dell’uomo”, in ebraico, significa semplicemente “uomo”). Appare poi la figura del pastore, che “separa” le pecore dalle capre, rispettivamente collocate a destra e sinistra. Il gruppo di destra sono i “benedetti del Padre mio” (25,34) che Egli invita ad entrare nel Regno, preparato per loro, da sempre. Il criterio di separazione è il comportamento tenuto con Lui: gli hanno usato misericordia, quando lo hanno incontrato affamato, assetato, immigrato, svestito, malato, carcerato. A queste parole essi rimangono sorpresi e obiettano di non averlo mai incontrato in quelle condizioni.

La risposta del Re-Pastore è la vera rivelazione di questa pagina evangelica: Gesù si identifica con i “fratelli più piccoli” (25,40). Ossia con gli ultimi, con i sofferenti, con i disprezzati. Poi il Re-Pastore si rivolge al gruppo di sinistra, che scaccia come maledetti verso “il fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi messaggeri” (25,41). (L’inferno dunque è stato preparato non per gli uomini, ma per quelli che liberamente scelgono di seguire il diavolo). La motivazione dell’allontanamento dei maledetti è uguale e contraria a quella dei benedetti: non gli hanno usato misericordia. Stessa obiezione dei condannati, stessa risposta del Re-Pastore. Sono due, mi pare, i momenti catechetici emergenti: l’identificazione di Gesù con gli ultimi e il criterio che fa di noi “benedetti del Padre” o “maledetti”: la misericordia. I vecchi frati dicevano che quando un povero bussa alla porta del convento, è Gesù Cristo che viene: pauper venit, Christus venit.

L’avvenimento è in ogni caso una grazia: se lo accogli, hai accolto Gesù, se lo rifiuti, sai di aver peccato, perché lo hai rifiutato. Chi vive così il rapporto con il povero, vive con fede, imprescindibile per riconoscere il Signore nel prossimo bisognoso. Non si è chiamati dunque a compiere un opera buona per acquistarne il merito, ma di riconoscere il Signore che passa. La parola ebraica tradotta in italiano come “misericordia” ha a che fare con il grembo materno. Come dire che accogliere qualcuno, chiunque egli sia, equivale al gesto della madre che stringe a sé suo figlio. Il rapporto che Dio ha con noi è un rapporto di misericordia; un rapporto materno. Non si può essere capaci di misericordia verso qualcuno, soprattutto se bisognoso, se Dio non ci concede un briciolo di quello stesso amore che Egli ha per noi.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi