Il Dio dei filosofi e di Abramo

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Giulio Michelini XXXI Domenica del tempo ordinario - anno B

Non ci sono altri dèi tranne Dio. Quest’affermazione, apparentemente scontata, è quanto di più grande abbia potuto produrre il pensiero ebraico. Si definisce, normalmente, monoteismo. È da questa credenza che derivano le loro dottrine principali il cristianesimo prima, e l’islam poi. Il pensiero greco, così ricco nelle sue sfumature e nella sua produzione filosofica e letteraria, non era invece stato capace di giungere a tanto. La discriminante forse risiede nel fatto che mentre i filosofi cercavano Dio soprattutto attraverso il ragionamento, Israele “fa esperienza del suo Dio e lo conosce non in modo astratto – come un essere supremo, buono, giusto – ma in forma concreta: un Dio che agisce nella storia, si prende carico del suo popolo e lo salva. Yhwh è colui che li ha condotti fuori dall’Egitto e ha concluso con loro un’alleanza, facendoli diventare suo popolo” (Carmona).

Ecco che, in qualche modo, aveva ragione Pascal a parlare di una differenza tra il Dio semplicemente “pensato” e un Dio vicino, conosciuto: “Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti”. Certo, chi ha letto Omero sa bene che gli dèi sono presenti continuamente nella vita degli uomini, come dimostrato nelle storie narrate dall’Iliade o dall’Odissea; ma questa presenza è qualitativamente diversa dalla presenza di Yhwh nella storia del suo popolo. Non solo gli dèi omerici, come scrive Giovanni Reale, “sono causa, oltre che dei beni, anche dei mali degli uomini: non danno a loro solo buoni consigli, ma altresì cattivi intendimenti, e li traggono in inganno in maniera proditoria”; essi hanno una “ambivalenza” morale strutturale, nella quale bene e male risultano mescolati, se non addirittura “indistinti”: agli dèi veniva attribuita l’intera gamma dei vizi degli uomini, addirittura ingranditi.

Non così per il Dio di Israele. Egli è totalmente Altro, e il peccato originale di Israele è proprio il tentativo di assimilarlo a sé, di renderlo “vicino” fino al punto da raffigurarlo come un vitello d’oro. Ma vi è ancora di più. “Il Dio aristotelico – prosegue Reale – proprio per la sua distanza ontologica strutturale dall’umano, pensa solo ciò che è perfetto, ossia se medesimo, e non ha diretta comunicazione con l’uomo, se non come modello emblematico di perfezione”. Il Dio di Israele, invece, è sì infinitamente lontano, altro e diverso, ma anche “vicino” e presente: “Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?” (Dt 4,7). Ecco perché questo Dio può essere amato. Non si può amare un’idea, ma solo Qualcuno che si può conoscere, e incontrare. Tutto questo ci pare di ravvisarlo nello Shemà, la preghiera più importante di Israele, che anche Gesù, da buon ebreo, avrà recitato nella sua vita almeno tre volte al giorno. Lì si dice, lo leggiamo anche nel Vangelo di oggi, che Dio è l’Unico e deve essere amato. E se questo avviene, allora l’esperienza d’amore per Dio porta inevitabilmente all’amore per il prossimo.

Si capisce allora la ragione per cui alla domanda dello scriba Gesù risponda citando i due comandamenti dell’amore verso Dio (Dt 6,4-5) e verso il prossimo (Lv 19,18), collegando strettamente i due comandi. Abbiamo detto prima che il Dio di Aristotele è diverso da quello di Israele. Ora capiamo perché per la comunità di Marco, o quella dell’ambiente (Roma?) di Marco in cui il suo Vangelo veniva proclamato o letto, le parole di Gesù erano fondamentali. “Per i neoconvertiti che vivevano in un ambiente politeistico in cui venivano offerti sacrifici a divinità di ogni genere, era importante assorbire l’idea che il Padre di Gesù Cristo è il solo e unico Dio e che l’amore di questo Dio e l’amore del prossimo vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici. Dato che il monoteismo ebraico era ammirato da molti non-giudei, la comunità di Marco poteva ben appellarsi a questo insegnamento di Gesù nella sua missione alle nazioni. Poteva anche vedere nell’impegno di adempiere il doppio comandamento dell’amore l’equivalente dell’adempimento di tutta la Legge – forse in base alle indicazioni tracciate da Paolo nella sua lettera ai Romani: Chi ama il prossimo ha adempiuto la Legge – dunque il pieno compimento della Legge è la carità (Rm 13,8.10)” (Donahue – Harrington).

Oggi il contesto culturale nel quale viene annunciato il Vangelo non ha più a che fare col politeismo greco, ma con gli idoli pagani, sì. Anzi, l’affermare che a rendere libero l’uomo è l’amore per Dio e gli altri, e non la ricerca a tutti i costi del successo, o del denaro, o del piacere’ questo annuncio è più che mai urgente ed attuale. Nessuno crede più all’esistenza di molte divinità, ma gli idoli sono sempre una sfida per tutti.

AUTORE: Giulio Michelini