Investire nella Sanità. Ma bene

Trecentocinquanta milioni di euro al giorno: è quanto spende lo Stato per pagare la sanità pubblica e privata. In un anno, fanno 130 miliardi di euro. Pochi? Tanti? Dipende.  Nei giorni scorsi è apparso un appello firmato da centinaia di importanti esponenti della medicina (e non solo) per sollecitare appunto lo Stato a non abbassare la guardia, a non tagliare risorse alla sanità, anzi di investirci di più. Si fanno paragoni con quanto spendono Stati affini al nostro (423 miliardi in Germania, 271 in Francia, 230 in Gran Bretagna) e chiaramente la nostra spesa appare sottodimensionata.

C’è un particolare che fa lievitare la differenza: qui da noi, medici e infermieri sono pagati la metà che in certi Paesi europei; un simile riadeguamento delle retribuzioni ci farebbe tornare abbastanza in linea, ad esempio, con la Francia. Paghiamo relativamente poco il personale sanitario perché permettiamo poi di esercitare la libera professione (intra o extra moenia) quale strumento “risarcitorio” a livello reddituale.

La vera questione è: quei soldi sono investiti bene? E qui emerge il “problema italiano”. I soldi arrivano dalla fiscalità generale, ma sono poi spesi dalle Regioni: 20 Sanità differenti. Lo sanno tutti che esistono sanità regionali d’eccellenza (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna…) e altre inqualificabili. Che nella stessa Regione, nella stessa città, spesso si trovano punte di diamante a fianco di strutture sgarrupate. Che i carichi di lavoro sono frequentemente auto-decisi. Che certe liste di attesa sono ignobili per lunghezza. Che i “pronto soccorso” nella maggior parte dei casi sono da frequentare solo se veramente si ritiene di essere in punto di morte.

Quindi una prima considerazione: i soldi spesi per la Sanità italiana sono impiegati mediamente abbastanza male. Negli ultimi decenni si è un po’ razionalizzata la rete degli ospedali, chiudendo piccole strutture sorte nella seconda metà del Novecento più per questioni campanilistiche che per razionalità di cure. I nuovi nosocomi sono realizzati come grandi “fabbriche” degli interventi operatori, mentre le lungodegenze vengono spostate fuori dagli ospedali. Il tasso di occupazione di un letto si è continuamente ridotto, il continuo estendersi della prevenzione aiuta ad affrontare il male prima che la situazione diventi più complessa.

Ma: mancano oculisti, dermatologi, radiologi, medici del pronto soccorso, soprattutto infermieri, che sono la spina dorsale della sanità e che mediamente vengono pagati poco più di un bidello. I professionisti di certe specialità preferiscono la libera professione, assai più lucrosa. Le sirene estere stanno attirando giovani laureati verso la Gran Bretagna o la Germania. I medici “di base” tempestano le strutture di accertamento con una marea di esami non sempre motivati; gli strumenti di diagnostica spesso sono vecchi, usurati, soprattutto scarsi.

Così capita che la spesa insoddisfacente, invece di essere migliorata, venga tagliata (almeno qui in Italia). Ma la questione numero uno è un’altra: si pensava che le Regioni sarebbero state molto più attente ai territori e alle loro esigenze. Esperimento quasi fallito.

Varrebbe la pena ripensare il tutto dalla radice, anche perché stanno arrivando ingenti fondi dal Pnrr per una Sanità territoriale da rivoluzionare. Sul come cambiare, si apre un altro enorme capitolo, che dovrebbe interpellare le distrattissime forze politiche nel concreto e non solo nei vuoti proclami.

Nicola Salvagnin

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