La messe è molta

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Giulio Michelini XI Domenica del tempo ordinario - anno A

“Vedendo le folle, Gesù ne sentì compassione”: i vangeli riportano diverse volte questo atteggiamento di Gesù nei confronti del suo popolo. Troviamo, nel Primo Vangelo, la stessa espressione in altre due occasioni, prima dei miracoli della moltiplicazione dei pani, in 14,14 (“‘vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati”) e in 15,32 (“Gesù chiamò a sé i discepoli e disse: Sento compassione di questa folla”).

Al centro di questi versetti c’è il verbo splanchnèzomai (impietosirsi, commuoversi), usato da Matteo anche per indicare in una parabola la commozione del padrone nei confronti del servo che ha con lui un enorme debito (18,27: “Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito”), e – sempre con Gesù come soggetto – per introdurre il suo miracolo di guarigione dei due ciechi di Gerico (cfr. 20,34). Questa volta però Gesù non compie un miracolo, come quello di dare il pane alla folla, non guarisce i malati, non insegna qualcosa sul perdono, ma si preoccupa della folla in sé, cioè per quello che essa rappresenta: il popolo stanco e sfinito, che non ha pastore.

Matteo sta parlando del suo popolo, del popolo di Israele, per il quale già la Legge e i Profeti avevano utilizzato descrizioni analoghe a quelle del vangelo di oggi. Nel libro dei Numeri, 27,17, Mosè prega il Signore perché Egli “metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore”; il profeta Zaccaria 10,2, invece, si lamenta degli Ebrei, che a causa delle loro infedeltà “vanno vagando come pecore, sono oppressi, perché senza pastore”. Triste è non sapere dove andare, e ancora di più essere abbandonati sul ciglio della strada senza poter riprendere il cammino (‘prostrate a terra’, sarebbe la resa esatta del verbo tradotto dalla Cei con “sfinite” in Mt 9,36).

Così è ogni uomo nel suo più profondo bisogno spirituale, quando non ha un ‘centro’ nella sua vita, quando ha tutto ma non sa perché vive, quando è senza punti di riferimento: peggio ancora, se ad essere così è – come emerge dalle parole del vangelo di oggi – l’intero popolo di Israele da cui Gesù proviene. Quali sono le ragioni di questa critica che non si può non vedere nelle parole di Matteo? Secondo Davies e Allison abbiamo a che fare con il giudizio che l’Evangelista avrebbe nei confronti dei leader d’Israele: “gli scribi e i farisei, e gli altri uomini in posizione di responsabilità e potere, per Matteo non si sono comportati bene, e sono una delle cause maggiori della crisi del popolo”. Io aggiungerei anche un’altra spiegazione. Gesù non si limita a criticare le guide della sua gente: sta esprimendo la sua coscienza di voler essere lui il pastore del suo popolo. Non basta provare compassione per qualcuno: bisogna fare qualcosa, ci si deve muovere in prima persona; ed ecco allora che per tutto il Primo Vangelo cresce l’idea che Gesù sia un pastore per il suo popolo, un mediatore santo come Mosè.

Già all’inizio del suo vangelo, quando ai Magi viene letta la profezia che stabilirà Betlemme come luogo della nascita del Messia, Matteo cita il profeta Michea e scrive: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele” (Mt 2,6). Gesù, il Messia di Israele, sempre per Matteo è il pastore che è stato “‘inviato alle pecore perdute della casa di Israele” (Mt 15,24; cfr. 10,6); è lui il pastore buono che raccoglie sulle spalle la pecora smarrita (cfr. Mt 18,12). Nel resto del Nuovo Testamento, Gesù è ancora “‘il pastore grande delle pecore” (Eb 13,20).

La Prima lettera di Pietro può scrivere a buon titolo che “Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime”. (1 Pt 2,25). Gesù diventa pastore del suo popolo e chiede la preghiera perché altri pastori lo seguano. Il campo dove lavorare è Israele: “Il popolo ebraico è paragonato a un campo di spighe pronto per la mietitura, e questo si riferisce all’attesa messianica di Israele, che è giunta a maturazione. Manca soltanto un numero adeguato di operai. Non basta, infatti, che la messe sia abbondante: occorre che il Padrone mandi operai sufficienti a raccoglierla nei granai (cfr. 3,12). Nulla va da sé: occorre sempre chiedere, pregare. Il mandato missionario nasce anche dalla preghiera, oltre che dalla compassione” (A. Mello).

Ecco allora perché Gesù invia i dodici: sono quelli che continueranno la raccolta messianica che Gesù ha inaugurato, e che avranno il compito di mostrare alle genti stanche e sfinite che Dio non abbandona mai il suo campo. Questo porta ancora frutto, e la Chiesa – come anche l’Israele di Dio, popolo dell’alleanza mai revocata – è chiamata a mostrare che le spighe sono molte, grandi, sono ormai cresciute e rimane solo da raccoglierle.

AUTORE: Giulio Michelini