La vera gloria di Cristo

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini V Domenica di Quaresima - anno B

Per tentare di comprendere il brano evangelico odierno, è necessario ricostruire lo scenario in cui si svolse l’episodio narrato dall’evangelista Giovanni. È la terza Pasqua che Gesù trascorre a Gerusalemme. E anche l’ultima. Il giorno precedente era stato accolto trionfalmente al suo ingresso in città. Il giorno successivo ci sarà l’Ultima Cena, poi l’arresto, il processo nel tribunale giudaico, la condanna in quello romano, l’esecuzione capitale e, nella notte fra sabato e domenica, la Risurrezione. L’incontro con i Greci, che chiesero di vederlo, si svolse probabilmente nel cortile del tempio di Gerusalemme, detto dei Gentili, perché potevano accedervi anche i non ebrei. Nei giorni di festa la ressa era indescrivibile. Costoro erano persone di lingua greca, probabilmente credenti nel Dio d’Israele, ma non di origine ebraica. L’evangelista precisa che erano saliti a Gerusalemme per il culto di adorazione. Probabilmente incuriositi dall’accoglienza trionfale del giorno precedente, cercano di essere presentati a Gesù. Per questo si rivolgono all’apostolo Filippo, che era di Betsaida, località sita nei pressi del lago di Galilea, abitata da una popolazione mista, che parlava anche il greco, la lingua franca del tempo. Filippo ne parla ad Andrea, suo concittadino, e i due fanno l’ambasciata a Gesù. L’evangelista non precisa se i Greci riuscirono ad ascoltare la risposta di Gesù; se sì, devono averla trovata misteriosa, almeno quanto noi. In realtà, con queste parole, Egli dà l’interpretazione della sua prossima morte. In ogni caso quel conversare non era tanto per questi stranieri, ma piuttosto per i discepoli e per noi oggi.

Alcune parole vi tornano ripetutamente: ora, glorificazione, chicco di grano, morte, vita, servire, seguire, il principe di questo mondo cacciato fuori… Incomincia dicendo: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo” (Gv 12,23). Già da qualche anno, in varie occasioni, Gesù aveva fatto cenno ad un’ora che sarebbe stata decisiva; la prima volta fu alle nozze di Cana, quando disse che quell’ora non era ancora venuta. Di fronte ad essa Gesù entra in un momento drammatico: dice di esserne spaventato e si domanda se sia il caso di chiedere al Padre di salvarlo da quell’ora; ma poi ci ripensa. Egli è venuto esattamente per quell’ora, che paradossalmente è anche l’ora della sua glorificazione. Per chiarire la cosa, aggiunge la breve parabola del seme di grano, che deve necessariamente morire se vuole dare frutto.

Se il seme avesse la possibilità di scegliere di non morire, rimarrebbe sterile, senza frutto; ma finirebbe in ogni caso preda della morte. È una legge scritta da Dio nella grammatica del creato: ogni vita sorge da una qualche distruzione. La spiga bionda, splendente, che ci rallegra in estate, si può ben considerare la glorificazione del seme che morì nell’inverno precedente. Molti di noi si domande- ranno: che cosa c’entra questo discorso con la domanda dei Greci? Quella domanda dei Greci indica che la sua fama si era diffusa anche all’estero e ciò poteva essere considerato un segno di gloria. (Come quando oggi si cerca accostare un personaggio famoso, meglio se americano, per averne l’autografo). Gesù però ribalta la visione della mentalità corrente: per lui la notorietà passa attraverso la morte.

La Risurrezione dirà chi egli è veramente. Nei prossimi giorni i Greci, e non solo loro, vedranno il suo volto di condannato, torturato, sfigurato dalla sofferenza. Ma gli occhi di coloro che crederanno “contempleranno Colui che hanno trafitto”. Questa è la dimostrazione definitiva di quanto il Padre abbia amato gli uomini: ha consegnato suo Figlio perché noi avessimo la vita per mezzo di Lui. E con questo è vinto il “principe di questo mondo”, l’antico serpente, che nei giorni della Genesi aveva convinto l’uomo che Dio non è amore, ma piuttosto invidia ed egoismo (Gn 3,5).

C’è, tra le altre, una parola di Gesù che riguarda da vicino noi che siamo in ascolto: “Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sarò io sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà” (Gv 12,26). Il significato primo e immediato di queste parole è che chi lo segue sulla croce sarà anche lui nella gloria del Padre. E qui siamo già tentati di chiamarci fuori, perché difficilmente qualcuno di noi finirà materialmente crocefisso. Ma c’è un significato più profondo, al cui confronto non possiamo sottrarci: il nostro rapporto con il dolore e la morte. Che cosa pensi della sofferenza, della persecuzione, del disprezzo? Credi seriamente che nell’ottica cristiana la morte si identifica con la “glorificazione”? In parole ancora più comuni: dove pensi che passi la strada che va verso la pienezza, la tranquillità? È davvero inevitabile attraversare la “morte” per conoscere la pace? La risposta a queste domande è la misura di quanto il nostro sia un pensare cristiano.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi