L’apocalisse tra mito e verità

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXXIII Domenica del tempo ordinario - anno B

Ogni anno, in questo periodo, la liturgia ci fa leggere e meditare alcuni testi delle Scritture sante, in uno stile non facile da capire: lo stile “apocalittico”. (L’uso giornalistico/popolare che si fa di questo aggettivo non ha nulla a che fare con il suo vero significato). Oggi ne leggeremo due: uno preso dal Libro del profeta Daniele, l’altro dal Vangelo secondo Marco. Tutti e due, ciascuno a suo modo, ci parla della fine dei tempi e ci dà un messaggio per la vita. In ogni caso la parola “apocalisse” non ha nulla a che fare con l’uso che se ne fa correntemente; ma significa “rivelazione”.

Vedremo. Cominciamo dal testo di Marco. Per prima cosa è necessario, come ormai sappiamo, ricollocarlo brevemente nel suo contesto. Gesù esce dal tempio di Gerusalemme insieme ai suoi discepoli. Uno di loro lo invita a osservare la magnificenza delle sue strutture architettoniche; in effetti il tempio di Gerusalemme era considerato una delle sette meraviglie del mondo antico. Gesù rispose in modo che dovette sorprendere non poco il gruppo degli accompagnatori: “Di questa costruzione non rimarrà pietra su pietra”. E continuarono la strada che scendeva fino al letto del torrente Cedron per poi risalire la china del monte degli Ulivi.

Durante la salita, quattro di loro gli chiesero quando sarebbe accaduto questo cataclisma. Gesù non rispose direttamente; cominciò a parlare dei segni precursori della catastrofe, con un linguaggio preso a prestito da alcuni profeti dell’Antico Testamento. Noi oggi sappiamo che storicamente tutto avvenne una quarantina d’anni più tardi, nel 70 d.C., ad opera dell’esercito di Roma. Gli antichi profeti avevano annunciato l’avvento di un mondo nuovo, il regno universale di Dio; prima però le nazioni si sarebbero coalizzate contro Gerusalemme per distruggerla, ma alla fine Dio sarebbe intervenuto trionfalmente per stabilire il suo regno. Tutto questo essi esprimevano con un linguaggio, per noi strano, appunto “apocalittico”, che chiamava simbolicamente in causa cielo, terra, luna, stelle e quant’altro, per significare il capovolgimento totale della storia, quando l’umanità si lascerà guidare da Dio.

Con questo retroterra culturale, era inevitabile che i discepoli accostassero la fine del mondo alla distruzione di Gerusalemme. Così anche pensò la primitiva comunità cristiana, che fuggì da Gerusalemme, quando vide avvicinarsi la guerra, sebbene Gesù avesse raccomandato di non avere paura, perché non sarebbe stata ancora la fine del mondo, la cui data, peraltro, nessuno conosceva.

Gesù parlò anche del suo ritorno alla fine dei tempi “sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria”, ma senza nulla di terrificante. I fenomeni descritti in precedenza si riferivano alla rovina di Gerusalemme. La sua venuta trionfale, invece, sarà per radunare gli eletti da ogni angolo della terra. Anche questo avevano predetto gli antichi profeti (Ez 36-37): la felice conclusione della storia, un’umanità finalmente riunificata. La prima lettura presenta un testo del profeta Daniele, che si trova a conclusione di un lungo brano in cui l’autore narra, in termini apocalittico-profetici, la storia dei suoi tempi, interpretati dal punto di vista di Dio. In questo tempo il popolo eletto visse molte traversie e ultimamente alcuni morirono, a testimonianza della loro fedeltà al Dio dei padri.

Quando la tribolazione e l’angoscia saranno al colmo, l’arcangelo Michele, protettore del popolo, scenderà in battaglia e saranno salvati quanti saranno trovati fedeli. I morti risusciteranno: i fedeli per la vita, e gli empi per “l’infamia e la vergogna eterna”. Una gloria particolare sarà riservata a coloro “che avranno indotto molti alla giustizia”. Gli antichi scrittori cristiani hanno visto in questo passo un accenno alla risurrezione finale e al giudizio universale. Gesù ha esplicitato queste parole, mostrando come la vittoria dell’arcangelo Michele fosse profezia della sua vittoria definitiva sulla morte. Sebbene ogni domenica proclamiamo coralmente la nostra fede in Gesù che “tornerà nella gloria per giudicare vivi e morti”, a molti queste realtà appaiono così lontane da pensare che non ci riguardino.

Oggi abbiamo da pensare a cose più vicine e concrete. Fortunatamente ci sono persone più avvedute, credenti e non, le quali affermano ad esempio che “solo la prospettiva di un incontro con l’Assoluto può ancora salvare l’umanità dal caos e dall’annientamento”. L’uomo ha addomesticato la terra, ma ora, come un apprendista stregone, è spaventato dai guasti che lui stesso ha prodotto. Per quanto appaia lontana la fine di tutte le cose, essa richiama e suppone la morte di ognuno di noi. “Compito di ogni uomo consapevole, oggi come ieri – dice una bella citazione trovata in Rete – è di mettersi in ascolto di Colui che possiede il segreto della sua identità e di prepararsi ad incontrarlo”.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi