Lo Stato accusato di premiare i delinquenti

A metà agosto gli italiani si sono commossi per il triste episodio di due donne morte per suicidio in carcere a Torino, nello stesso giorno. Nessuna relazione fra le due: storie e tragedie diverse, ma unificate perché appariva chiaro che non si trattava di malvage criminali di professione, ma di poveracce finite in prigione – sia pur giustamente dal punto di vista legale – per le disgrazie della vita.

I dubbi sulla efficacia di un sistema penale basato sul carcere

Da qui la commiserazione generale, i dubbi sulla efficacia e sulla equità di un sistema penale basato sul carcere, l’ascolto dato a quegli uomini di pensiero e di cultura – come Luigi Manconi e Luciano Eusebi – che da sempre si battono per un radicale ripensamento delle pene.

Il buonismo dello Stato

Ma sono bastati pochi giorni, e l’onda dell’emozione pubblica ha cambiato verso. Ci sono stati delitti, più o meno efferati, commessi da qualcuno che, già sotto processo per altro motivo, o addirittura condannato, si trovava in libertà condizionata o in licenza premio, o semplicemente era fuori per fine pena. E allora tutti a deprecare il (presunto) “buonismo” dello Stato, che lascia liberi i delinquenti e così espone a rischio le persone oneste; con l’invito corale a “buttare via la chiave” e a fare “marcire in galera” chiunque sia incorso in un reato anche piccolo (esclusa, si capisce, la frode fiscale… che comporta la beatificazione).

Il buonismo dello Stato verso i reati commessi dai minori

Peggio ancora, ci sono stati delitti commessi da giovanissimi; così molti hanno scoperto (!) che per i minorenni il regime penale è meno severo, e che se hanno meno di 14 anni non c’è né processo né prigione, seppure siano previste misure di rieducazione. Anche qui si è visto un “buonismo” che ha provocato l’indignazione di qualche uomo (e di qualche donna) di Governo, forse all’oscuro che queste sono regole introdotte dal Codice penale “fascista” del 1930, mentre in precedenza il limite della punibilità era 9 anni, non 14.

Le leggi e le sentenze vanno scritte al riparo dalle emozioni

Senza contare che nel 1930 i tre quarti dei ragazzi italiani verso i 14 anni già lavoravano come apprendisti, manovali o braccianti, ed erano quindi più maturi di tanti bamboccioni viziati di oggi. Tutte queste vicende, con la volubilità della indignazione collettiva, ci insegnano che tanto le leggi quanto le sentenze bisogna scriverle al riparo delle emozioni, anche comprensibili, suscitate da singoli episodi, magari enfatizzati dai media e non sempre conosciuti in tutti i particolari. Soprattutto le leggi penali vanno pensate nei tempi lunghi.

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