L’unico maestro è Gesù

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXXI Domenica del tempo ordinario - anno A

Nelle scorse domeniche abbiamo assistito ad un aperto faccia a faccia di Gesù con le autorità giudaiche. Oggi lo scenario cambia: “Gesù parlò alle folle e ai suoi discepoli” (Mt 23,1). Dunque non più direttamente ai gerarchi del Tempio, che rimangono sullo sfondo, come esempi da non imitare. Nella stessa forma letteraria ha inizio il Discorso della montagna: “Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli” (5,1). L’evangelista sottolinea che ci sono come due cerchie di ascoltatori: una più vicino a Gesù: i discepoli; l’altra un po’ più distante: le folle. I discepoli sono un piccolo numero, le folle sono molto più numerose.

La prima rappresenta in qualche modo la comunità cristiana già radunata, la seconda le masse, a cui pure è rivolta la Parola, ma che ancora non fanno parte della comunità cristiana. Alcuni di essi entreranno a farne parte. I discepoli hanno il compito di chiamarli e attenderli benevolmente. La cosa evidentemente ci riguarda: noi siamo oggi i discepoli di Gesù, radunati nella comunità ecclesiale; le folle sono ancora fuori. Il nostro annuncio deve raggiungerle e noi abbiamo il compito di attenderle nel “Cortile dei Gentili” (Benedetto XVI). Il testo di oggi ci presenta Gesù che parla della “cattedra di Mosè”, su cui sono seduti scribi e farisei. Nelle sinagoghe c’era un seggio particolarmente ornato e solenne, spesso di pietra. Coloro che avevano il diritto di sedervi, avevano un potere indiscusso: quello di insegnare. Potere che li poneva istituzionalmente al di sopra degli altri e del quale normalmente s’impadronivano per dominare.

Gesù questa volta non contesta la bontà del loro insegnamento, anzi esorta a metterlo in pratica; ma disapprova il fatto che usino il loro potere per schiavizzare il popolo, con una marea di precetti, spesso impraticabili, e che neanche loro praticano. Viene da pensare all’apostolo Pietro, che qualche decennio più tardi, scongiura i responsabili della comunità cristiana a non imporre sul collo dei pagani, che avevano creduto in Gesù, “un giogo che né noi, né i nostri padri abbiamo potuto portare” (At 15,10). È innegabile comunque che c’è un legame tra sinagoga e comunità cristiana. Il cristianesimo è cresciuto sul terreno del giudaismo, dal quale però si distingue per la sua adesione a Gesù Cristo, che è l’unico maestro.

Qualcosa unisce le due comunità e qualche altra le divide. Paradossalmente ciò che le unisce è “tutto quello che vi dicono” (23,3). Nello stesso tempo la comunità cristiana non deve considerarsi moralmente migliore della sinagoga, anzi è messa in guardia, perché può cadere negli stessi peccati: dire e non fare. Gesù affronta anche l’argomento vanità. “Compiono le loro opere per essere visti dagli uomini” (23,5). L’attenzione si concentra su quattro esempi: i tefillin, gli zizit, i posti di riguardo in sinagoga e i più onorevoli nei banchetti. I tefillin, in italiano detti comunemente filatteri, sono strisce di cuoio, che si avvolgono strette sulle braccia sulla fronte e che variano in larghezza. Simbolo di chi si presenta a Dio, incatenato ai precetti della Legge.

C’era anche chi gareggiava nell’allargarle, come segno di maggior devozione. Il libro del Deuteronomio ne parla in 6,8: “Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi”; ma intendeva il precetto in senso metaforico. Ai tempi di Gesù invece lo si interpretava già letteralmente. Gli zizit sono frange di lana, bianche o azzurre, che pendono dalle vesti interne e dai mantelli, e anche quelle simboleggiano i precetti della Legge. Più erano lunghe e più chi le indossava appariva osservante. (I verbi al presente significano che l’uso di queste devozioni è tuttora in vigore. Chi è stato in Terra Santa lo sa).

I posti più in vista nelle sinagoghe erano attribuiti ai membri benemeriti della comunità; i più onorevoli nei banchetti erano quelli più vicini all’ospitante o al padrone di casa. “Amano essere chiamati rabbi…” (23,7). La parola rabbi letteralmente significa “mio grande”; ma poi passò a significare “maestro della Legge”. Quelli appunto che schiacciavano il popolo, imponendo “carichi insopportabili”. Nella comunità cristiana non ci dovrà essere alcuno che osi imporsi sugli altri. L’unico rabbi è Gesù. La necessaria autorità gerarchica dovrà essere concepita e praticata solo come servizio ai fratelli. L’uomo naturale, però, che non è illuminato dallo Spirito di Dio, è incapace di servire nell’esercizio dell’autorità. Noi cristiani dovremmo costituire in autorità solo chi è capace di servire così; memori della Parola, che conclude questo Vangelo: “Chi si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi