Meloni vuole l’“uomo forte”

di Stefano De Martis

Subito a ridosso della presentazione in Parlamento di una legge di bilancio assai controversa e minimalista – anche per obiettivi vincoli finanziari –, il Governo ha messo in campo l’annunciata proposta di riforma costituzionale per l’elezione diretta del premier: la “madre di tutte le riforme”, come l’ha definita Giorgia Meloni. La circostanza ha dato motivo a più di un osservatore di rilevare quasi un intento compensatorio tra una manovra economica lontana dalle promesse elettorali e un’iniziativa molto ambiziosa e di grande impatto sul piano degli assetti istituzionali.

Un ulteriore parallelismo ruota intorno alla scadenza delle elezioni europee di giugno. Così come la manovra economica è tutta concentrata nei suoi effetti pratici sul 2024 (poi si vedrà…), così pure nell’ambito delle riforme a livello istituzionale, il premierato e l’autonomia differenziata (che devono marciare in sincronia per l’accordo tra FdI e Lega) le previsioni si fermano al prossimo anno, anche se il percorso per portarle a compimento è decisamente più lungo e pieno di incognite. L’importante è che prima del voto europeo FdI e Lega possano sbandierare un primo passaggio parlamentare per i rispettivi cavalli di battaglia.

I dubbi sul futuro e sull’effettivo raggiungimento degli obiettivi di riforma nulla tolgono, però, all’intrinseca rilevanza dell’iniziativa del Governo sul premierato. A fronte di alcuni tentativi di minimizzare le conseguenze dei cinque articoli del progetto – per esempio sul ruolo del Presidente della Repubblica –, stanno le parole della premier, che ha dichiarato pubblicamente l’intento di cambiare la stessa “architettura istituzionale della nazione”. Che poi tecnicamente il testo varato dal Consiglio dei ministri sia un po’ pasticciato e in alcuni aspetti perfino contraddittorio (a detta della maggior parte dei costituzionalisti, compresi alcuni vicini al Governo), dipende principalmente da due ordini di motivi.

Il primo è il confronto straniante con la concreta situazione attuale, in cui un premierato di fatto è già attivo e si sta sempre più strutturando. Paradossalmente, la proposta di riforma arriva mentre è in carica una presidente del Consiglio particolarmente forte, che usa sempre più massicciamente lo strumento dei decreti legge (divenuti ormai la forma largamente prevalente dell’attività legislativa) e la cui corrispondenza al risultato elettorale è fuori discussione.

Il secondo è che per mitigare la rigidità del sistema conseguente all’elezione diretta (a rigore, non dovrebbe essere prevista alcuna possibilità di cambiare premier senza nuove elezioni, anche di fronte a situazioni eccezionali e di emergenza), si sono introdotte norme che attribuiscono ai partiti della maggioranza un potere decisivo rispetto alla tenuta del presidente del Consiglio e alla sua eventuale sostituzione. Una soluzione che serve evidentemente a rassicurare i partner minori dell’attuale coalizione di governo, e che però risulta in contrasto con la finalità – peraltro condivisa e ritenuta prioritaria da quasi tutte le forze politiche – di stabilizzare la durata degli Esecutivi.

Alla fine resta l’elezione diretta del premier. È questa sorta di investitura carismatica del capo del Governo, caso unico nella comparazione con le altre democrazie, che dà il senso all’intera operazione. C’erano altre strade per perseguire forse anche più efficacemente gli obiettivi dichiarati; invece è stata scelta un’opzione del tutto inedita per la tradizione costituzionale della Repubblica. Ma il dibattito è solo agli inizi.

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