La gioia di riabbracciarsi

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini IV Domenica di Quaresima - anno C

La tradizione liturgica chiama questa domenica “Dominica Laetare”, ossia “Rallègrati”, dalla prima parola latina del canto d’ingresso; citazione dell’ultimo capitolo del libro del profeta Isaia, che invitava Gerusalemme a gioire ed esultare perché il Signore avrebbe fatto presto “scorrere su di lei la pace come un fiume” (Is 66,12). Questo incipit è come un prologo alle tre letture che, a mezza Quaresima, ci presentano tre grandi momenti della storia della salvezza: l’antico Israele ha concluso la lunga marcia nel deserto e finalmente può celebrare la Pasqua nella terra promessa (Gs 5, 9-12); l’annunzio che, se uno è in Cristo, sperimenta l’assoluta novità di tutte le cose (2 Cor 5,17-21); la festa straordinaria organizzata da un padre al ritorno del figlio, scappato da casa e ormai dato per morto (Lc 15,1,3.11-32).

È la parabola detta del “figlio prodigo”; che sarebbe meglio chiamare di “un padre e due figli”. Gesù disse questa parabola per giustificarsi presso certi benpensanti che si scandalizzavano delle cattive compagnie che frequentava. La lettura evangelica comincia così: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: ‘Costui accoglie i peccatori e mangia con loro’”. I pubblicani – come molti sanno – erano gli esattori delle tasse per conto dei Romani; gente mal vista e scandalosa, che lavorava al soldo dello straniero; collaborazionisti e sfruttatori del popolo. Gesù non solo parlava con loro, ci andava a braccetto, ma ne accettava anche gli inviti ai festini, pagati con il sangue della povera gente. Veramente c’era di che scandalizzarsi. In una occasione simile, quei custodi dell’ortodossia agganciarono i discepoli, e chiesero loro conto dell’operato del maestro. Gesù li sentì e rispose personalmente che sono i malati ad avere bisogno del medico, non quelli che stanno bene (Mc 2,17).

La liturgia di oggi omette alcuni versetti, che riportano due brevi parabole a cui presiede la stessa dinamica: la perdita, il ritrovamento, la gioia di avere ritrovato. Sono la parabola della pecora perduta e ritrovata, immaginariamente ambientata in luoghi campestri, e quella della moneta smarrita dalla padrona di casa e poi ritrovata, che invece richiama un ambiente domestico. Nei due casi il ritrovamento provoca una grande gioia. La stessa dinamica è presente in quella del figlio prodigo, che tutti conosciamo dai tempi della scuola materna. Schematicamente si può riassumere così: c’è una famiglia composta da un padre due figli. (Non sappiamo se c’era anche la madre; comunque non entra nell’intreccio del racconto).

Il minore dei due se ne va di casa, dopo aver preteso la sua parte di eredità. Sperpera tutto quanto aveva portato via; ridotto alla fame, decide di tornare dal padre, offrendosi di fargli da garzone. Quando il padre lo vede da lontano, gli corre incontro, lo abbraccia, lo bacia e ordina di fare festa, perché ha riavuto un figlio ormai considerato morto. Il fratello maggiore, che era rimasto a casa, si rifiutò di far festa perché ritenne ingiusto festeggiare il ritorno di quel fratello che aveva dilapidato il patrimonio, mentre a lui, rimasto sempre al servizio dell’azienda paterna, il padre mai aveva fatto un regalo. I tre personaggi della parabola sono ben caratterizzati: il figlio minore è un giovanotto sognatore, insofferente del tran-tran quotidiano e deciso ad andarsene da casa, perché la presenza del padre gli impediva di fare la sua vita.

Il maggiore è un buon lavoratore, attaccato alla proprietà paterna, ma scontento e brontolone; si sente schiavo del dovere e ne attribuisce la colpa al padre, che giudica avaro ed insensibile. Due ragazzi così se ne incontrano tranquillamente dappertutto, anche oggi, in una grande città o in un piccolo paese o anche in montagna. Padri come quello della parabola invece pare che non si trovino facilmente. È l’immagine di un signore che rompe tutti gli schemi del buon senso, della sapienza pedagogica e perfino della giustizia distributiva. In lui prevale la gioia di avere ancora vivo suo figlio. Il capitale sperperato non conta di fronte alla realtà del ritorno di suo figlio, “perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Quanti tra noi non si sentono istintivamente d’accordo con il fratello maggiore, che rimprovera al padre l’evidente ingiustizia? “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.

Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Dio non pensa come pensiamo noi. Per Lui, il ritorno di un figlio conta infinitamente di più della sua fuga e dei suoi peccati. È scritto: “Io non voglio la morte del peccatore, ma che ritorni e viva”.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi