Indovina chi viene a cena

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXII Domenica del tempo ordinario - anno C

Bisogna onestamente riconoscere che siamo lontani anni luce dalle parole che concludono il Vangelo di oggi. Gesù dice che, se dai un ricevimento di gala, evita di invitare parenti, amici, i vicini di casa ricchi, personaggi importanti, altrimenti rischi che ti invitino a loro volta. In quel caso, avrai ricevuto la tua ricompensa. Questa hai cercato: non ce ne sarà un’altra. Se invece inviterai “poveri, ciechi, storpi…”, sarai fortunato, perché essi non avranno mai di che ricompensarti; ma troverai la tua ricompensa pronta alla risurrezione dei giusti.

Non sembra paradossale questo modo di pensare? Noi invece troviamo “normale” invitare quelli che sappiamo che lo faranno a loro volta. La verità è che non sappiamo più che cosa sia la “gratuità”, perché forse non l’abbiamo mai sperimentata. Fa parte della nostra cultura pensare che ogni dono richiami un contraccambio, possibilmente subito. Questa mentalità ci porta a dubitare anche della gratuità di Dio verso di noi. Tant’è che, senza accorgerci, abbiamo creato persino un ossimoro: guadagnarsi la grazia. Come è possibile guadagnare qualcosa che è gratuito per definizione? Gesù garantisce una ricompensa alla risurrezione dei giusti. Ma, per attenderla, abbiamo tutti bisogno di una misura di fede ben più alta di quella di cui spesso ci accontentiamo.

Ma procediamo con ordine. Guidati dall’evangelista Luca, stiamo accompagnando Gesù in quel viaggio drammatico che lo sta portando dalla Galilea a Gerusalemme, dove si compiranno i misteri della sua Pasqua. È un sabato. Dopo gli uffici sinagogali si va a pranzo. Gesù è in viaggio e non ha una sua casa dove andare a pranzo. Accetta l’invito di un capo dei farisei. Mentre sta entrando in casa, s’imbatte in un “idropico”, che risana, in polemica con alcuni che lo stanno osservando. (La liturgia di oggi omette questo episodio).

Non è la prima volta che sentiamo raccontare di Gesù che va a pranzo a casa di farisei. Gli evangelisti spesso hanno presentato una caricatura dei farisei, tant’è che nel nostro parlare comune quel nome è diventato sinonimo di persona orgogliosa e ipocrita. In realtà il movimento farisaico, come Gesù lo ha conosciuto, era un movimento rispettabile e rispettato, ricco di molte sfaccettature e correnti, con cui Gesù era spesso in polemica. Del resto, se egli accetta un invito a pranzo, significa che doveva esserci amicizia e stima reciproca. San Paolo più tardi ascriverà a proprio vanto di essere “fariseo, figlio di farisei”. Fu dopo la morte e risurrezione di Gesù che nascerà una profonda incomprensione tra cristiani e giudei, al punto che questi scomunicheranno la piccola, nuova comunità dei seguaci di Gesù.

Durante il pasto, Gesù espone due parabole: una sull’umiltà, l’altra – di cui abbiamo detto sopra – sulla gratuità. Per intendere correttamente il racconto evangelico, dobbiamo fare attenzione all’espressione iniziale: “Diceva agli invitati una parabola”. La parabola è una forma di discorso che rimanda sempre a un senso figurato; proporre una parabola è come proporre un enigma, che sfida la comprensione degli ascoltatori. Gesù prende spunto dalle manovre degli invitati, che tentavano di accaparrarsi i posti migliori, per rivelare un aspetto del regno di Dio.

Il termine “umiltà” non gode di buona stampa nelle culture di oggi; quasi volessimo intendere che bisogna lasciarsi schiacciare dalla prepotenza degli oppressori. Gesù sta dicendo piuttosto che ciò che accade in quel banchetto è figura di ciò che accadrà nel regno di Dio. Quelli che si sono affrettati a occupare i primi posti hanno subìto la vergogna di essere mandati indietro. Mentre altri sono invitati ad accomodarsi più avanti. Così Egli umilierà chi si sarà esaltato ed esalterà chi sarà stato umiliato. Questo insegnamento di Gesù sull’umiltà è stato preparato nella prima lettura, tratta dal libro del Siracide, che è uno scritto dell’Antico Testamento composto un secolo e mezzo circa prima della nascita di Gesù Cristo. L’Antico Testamento sempre prelude al Nuovo.

Nel brano riportato nella liturgia di oggi, l’espressione che maggiormente colpisce parla del superbo: “Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male”. L’affermazione è radicale e definitiva. Sembra di sentire Gesù quando parla della bestemmia contro lo Spirito santo (Mt 12,31). Ci domandiamo: perché non c’è rimedio per il superbo? La risposta sta nella struttura stessa del superbo: egli è convinto della propria autosufficienza; non ha bisogno di nessun altro per essere salvato; le opere delle proprie mani hanno il potere di liberarlo da ogni bisogno; Dio non lo interessa, non ne sente il bisogno: ritiene che le sue tecnologie Lo abbiano ormai ben sostituito.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all’Ita di Assisi