Quale liturgia per la post-modernità

Un libro appena uscito, opera di don Bruno Cescon, propone vie per dare valore alla liturgia nell’attuale contesto culturale

Nella post-modernità e nella seconda modernità, ha senso parlare di una “liturgia possibile” ma “senza cadere nell’incanto dell’immediato e senza perdersi nell’utopia”. Parte da questa scommessa il volume La liturgia nel postmoderno, di don Bruno Cescon, appena pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana. L’autore è sacerdote della diocesi di Concordia-Pordenone, docente di Filosofia e di Pastorale, e direttore del settimanale diocesano Il Popolo.

Nel volume il tema della liturgia viene affrontato a partire da una domanda: come conciliare il relativismo odierno con la verità del rito cristiano?

“Innanzitutto bisogna ricordare che coloro che celebrano e che partecipano al rito liturgico – i sacerdoti e i fedeli – appartengono nel nostro caso alla società occidentale, attraversata da quei ‘filamenti culturali’ di post-moderno come la sfiducia nella ragione e, quindi, la possibilità di cavalcare più situazioni: il matrimonio e le coppie di fatto, il primato dei diritti civili e l’estremo individualismo… Nello stesso tempo, però, la liturgia – che è la proposta concreta, visibile, di cosa la Chiesa fa e di come continua a farsi – contiene potenzialità che non sono messe in luce della condizione post-moderna e di quella che io chiamo ‘seconda modernità’. Ad esempio, quando si celebra un battesimo, diciamo che ‘rendiamo il bimbo figlio di Dio’: che conseguenze provoca questo sui diritti umani del bambino? Certamente essi vengono rafforzati, ‘resi divini’, proprio perché un’offesa al bambino riguarderebbe la sua stessa sacralità, e dunque si configurerebbe come un’offesa non solo all’Uomo, ma anche a Dio. La liturgia, quindi, dà un fondamento maggiore ai diritti umani”.

Lei definisce la liturgia come “ermeneutica morale”: qual è il criterio interpretativo che offre all’uomo contemporaneo?

“La liturgia offre di fatto un quadro etico della propria vita e della vita sociale: nell’offertorio, ad esempio, la liturgia propone la carità, e in questo modo è in grado di generare solidarietà all’interno della società. Quello liturgico non è un approccio intellettuale, ma concreto, di un’esperienza che viene fatta. La liturgia, in altre parole, nasce dalla considerazione del valore dell’uomo, e dunque se ne prende cura. Nella liturgia inoltre viene praticata l’integrazione: non esiste distinzione di razza, di cultura, di lingua, perché di fronte a Dio tutti noi siamo semplici uomini”.

La parola “sacrificio” è quasi scomparsa dal vocabolario comune, mentre è fondamentale per la liturgia: c’è un margine di recupero?

“Certamente sì, perché nella liturgia il sacrificio è dono, è Dio stesso che si dona a ciascuno di noi. Anche nella nostra vita va recuperato il senso del sacrificio come dono verso gli altri. Normalmente, invece, il sacrificio viene inteso come il sacrificio della propria vita in onore della patria – concetto, questo, poco gradito dalla nostra cultura – oppure come la capacità di sobbarcarsi delle rinunce in funzione del raggiungere un grosso traguardo sociale. Ma questo non è il senso cristiano del sacrificio, perché contiene un carattere egoistico: nella prospettiva cristiana c’è, invece, una gratuità che ci precede. In secondo luogo, nel sacrificio cristiano c’è l’espiazione e il pasto comune. Questo terzo elemento, in particolare, introduce la socialità e mostra come la visione cristiana generi appartenenza e tolga dalla solitudine gli uomini”.

Il calo di fedeli alla messa domenicale indica, anche nei credenti, un deficit di partecipazione: quali indicazioni vengono dal rito per invertire la tendenza?

“Nel libro, traccio un parallelo tra la partecipazione democratica e la partecipazione liturgica: se devo parlare di un difetto sia della democrazia, sia della liturgia, questo è la mancanza di una partecipazione attiva e fruttuosa. Se la liturgia riesce, aiuta a partecipare in senso positivo, creerà un effetto positivo anche nella società. Se non ce la fa, allora riemergerà l’individualismo, e ciò provocherà meno partecipazione, più rivendicazione d’interessi di categoria che tensione verso il bene comune. Nei Paesi dove non c’è libertà, la celebrazione liturgica diventa anche il luogo dove c’è inclusione, libertà, diritto a radunarsi, dove si danno indicazioni sulla propria liberazione sia come nazione, sia a livello personale. Questo non significa, naturalmente, che la liturgia sia un fatto politico, ma che c’è un continuo contagio tra le due realtà, sempre che il cristiano viva la propria fede in profondità”.

AUTORE: M. Michela Nicolais