Una forte religiosità non sufficiente a sostenere la vita della Chiesa

Intervista a mons. Ivo Baldi missionario vescovo della diocesi di Huaraz in Perù

Mons. Ivo Baldi sarà già tornato a Huaraz quando leggerete questa intervista. Abbiamo incontrato don Ivo, prete di Città di Castello chiamato ad essere vescovo in Perù, nei giorni scorsi in Italia per partecipare alla visita “ad limina”, l’incontro che tutti i vescovi del mondo hanno periodicamente con il Papa. Don Ivo non accetta di essere definito vescovo “missionario”, dato che il Perù è una terra cristiana da più di 500 anni; là il senso cristiano della vita si impara più che in Italia. Da tanti fattori “ci rendiamo conto – dice – che c’è più terra di missione in Italia che in Perù”. Innanzitutto chiediamo di fare una sintetica descrizione della sua diocesi. La diocesi di Huaraz è divisa pastoralmente in 3 decanati. Il territorio è di 11.000 km quadrati (l’Umbria ne misura 8.456); “è una diocesi abbastanza piccola in Perù!”. Il Vescovo può contare sul servizio di 43 preti incardinati in diocesi (di questi 4 sono non peruviani), e su 11 religiosi. Nelle 24 parrocchie in cui è divisa la diocesi vivono 320.000 abitanti. Accanto ai sacerdoti svolgono la loro attività come catechisti rurali oltre 300 laici, la maggior parte dei quali autoctoni; 4 parrocchie sono affidate all’Operazione Mato Grosso. La “scristianizzazione” è un problema assai diffuso in Europa. Quale è la situazione in America Latina?Non posso parlare in generale dell’America Latina, essendoci differenze troppo grandi tra Stato e Stato. Persino il Perù è una società eterogenea con varie componenti originali: basti pensare solo alla distinzione tra la sierra (montagna), la selva (foresta), e la costa. Che cosa succederà là? Credo che quando in Perù ci sarà un cambiamento sarà diverso da quello che sta avvenendo in Europa. Non ci sarà, probabilmente, quel risentimento verso la religione, quelle idee e quelle congiure che in Europa sono state confezionate contro il cristianesimo dalla cosiddetta modernità. Qual è una “debolezza” della tua Chiesa?Potrei indicarla nella religiosità popolare: essa interpreta un forte sentimento religioso, ma allo stesso tempo è costruita su strutture religiose troppo fragili ed è spesso basata solo sull’abitudine: così comè difficilmente riuscirà a sopravvivere all’assalto della modernità. Molta gente l’abbandona da un momento all’altro perché ne scopre l’inconsistenza esteriore. Là ancora succedono fatti che in Italia sono inimmaginabili: due mesi fa è stata portata in parlamento, solennemente, la statua della Madonna di Fatima. Alla presenza dei deputati il presidente dell’assemblea ha incoronato la statua. Sarebbe possibile a Montecitorio? Un europeo potrebbe quasi riderci sopra; chi vive lì sa che queste sono le caratteristiche di quella religiosità. Da pastori dobbiamo chiedere al Signore la grazia di crescere come Chiesa che scopre sempre di più il suo essere comunione e il ruolo dei laici al suo interno. Approfondiamo…In Perù è spontaneo che la Chiesa sia fatta dai laici. In tanti altri posti io vedo la preoccupazione per la mancanza di sacerdoti; essa è vista solo come impossibilità di svolgere un servizio o di coprire tutti i bisogni così come è sempre stato. Se il prete manca non viene spontaneo ammettere che la Chiesa deve formarsi come movimento di comunità che si ritrovano, pregano, si organizzano insieme, celebrando l’eucaristia magari solo una volta la settimana. All’interno di questa Chiesa bisogna formare nuovi laici, responsabilizzarli di più. Nelle nostre assemblee ci siamo interrogati sulla diffusione delle sette: fatto doloroso, che interpella con grande pena tutta la Chiesa latino-americana. Di fronte a questo dobbiamo riconoscere una debolezza di fondo: moltissimi cattolici, semplicemente battezzati, sono abbandonati a se stessi, e sono pasto di chi arriva per primo. Noi abbiamo un clero senza una grande inquietudine pastorale, che si accontenta sì di vedere le chiese piene, ma che non si rende conto che solo il 10% della popolazione le riempie. I laici, in questo contesto, possono essere il fattore di sfida per i sacerdoti. Nella mia diocesi abbiamo fatto l’assemblea diocesana, quest’anno, sul ruolo del laico nella Chiesa, il prossimo anno rifletteremo su cosa è la parrocchia. L’idea di fondo è che la Chiesa sia sentita, da tutti, come dono e impegno, realtà che nessuno si inventa, e che ognuno deve vivere con responsabilità. Per capire, con un’immagine?È quella che stiamo diffondendo: noi siamo come una macchina che è fatta per camminare sulle strade, ma ogni tanto si ferma al distributore. Il distributore è la Chiesa, la parrocchia. Se non mi fermo mai al distributore, prima o poi mi fermo lungo la strada perché è finita la benzina, ma se mi fermo sempre al distributore vuol dire che qualcosa non va e mi devo chiedere perché ho comprato la macchina. Occorre inoltre che qualcuno gestisca il distributore, garantisca la manutenzione, si fermi per tenerlo in ordine. Così immagino l’impegno “intra ecclesiale” nella mia diocesi di Huaraz e in altri contesti ecclesiali.

AUTORE: Francesco Mariucci