Veri e falsi cristiani

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Oscar Battaglia IX Domenica del tempo ordinario - anno A

Leggendo il Vangelo, si rimane impressionati dal frequente uso che Gesù fa delle immagini contrapposte. Spesso stabilisce confronti tra realtà e atteggiamenti contrari, come se non conoscesse i colori ed toni intermedi tra il bianco e il nero. Per limitarci al Discorso della montagna, la cui conclusione leggiamo oggi nel Vangelo, Gesù usa il classico confronto tra agnelli e lupi (7,15), tra albero buono e albero cattivo, tra frutti buoni e frutti guasti (7,16-18), tra veri e falsi profeti (7,15), tra saggi e stolti (7,24.26), tra casa costruita sulla roccia e casa costruita sulla sabbia. Si può subito notare che in questi paragoni l’aspetto positivo è sempre messo prima dell’aspetto negativo, Vuol dire che Gesù è un ottimista, è abituato a guardare la vita e la storia in positivo, anche se la sua concretezza lo porta a giudicare senza farsi illusioni. Perciò costata con amarezza anche gli aspetti negativi della realtà, causati dalla cattiveria e dalla fragilità umane.

Egli sa che “l’uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive” (12,35). Se usa immagini contrapposte, lo fa per farsi capire meglio da gente concreta, abituata ad un linguaggio forte e chiaro. Con esse, non contrappone vera e falsa dottrina, ma buona e cattiva condotta. È ciò che gli interessa di più, perché ha sempre avversato l’ipocrisia, la doppiezza, quella dei farisei che “dicono ed non fanno” (Mt 23,3). Non sopporta le mezze misure dell’incoerenza. Inizia perciò il suo discorso respingendo una preghiera fatta solo di parole, separata da una prassi di vita cristiana impegnata. La preghiera biascicata non serve a nulla, se non è unita alla vita; la fede è vuota senza le opere: “Non chi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che sta nei cieli”.

La ripetizione della parola “Signore” vuole significare l’intensità dell’invocazione, e dice che nemmeno tale intensità giova a qualcosa, se manca lo sforzo per compiere la volontà di Dio rivelata da Cristo nel discorso che sta concludendosi. Proprio questo primo discorso, come l’ultimo, si chiude con il riferimento al rendiconto finale della fine dei tempi (“quel giorno”). Gesù afferma che lui, come giudice ultimo, non ci giudicherà sulle preghiere pronunciate, le prediche fatte in suo nome; paradossalmente, non terrà conto nemmeno dei miracoli e degli esorcismi operati usando il suo nome. Il rimando ideale al giudizio finale, al momento cioè della separazione delle pecore dai capri, dei benedetti dai maledetti (Mt 25,31-46), ci fa capire che l’ultimo esame verterà sull’amore per il prossimo. Del resto questo è il nucleo delle esigenze presentate da Gesù nel Discorso della montagna. Aveva cominciato col dire: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste… Siate perfetti, in questo, come è perfetto il Padre vostro del cielo” (5,44-48).

Aveva proseguito col dire: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi” (6,14). E ancora: “Col giudizio con cui giudicate sarete giudicati”. Poi aveva riassunto tutto nella regola d’oro di tutta la vita cristiana: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo loro: questa infatti è la Legge e i Profeti” (7,12). La volontà di Dio è tutta qui, i prodigi straordinari non possono sostituire o compensare la mancanza dell’amore. Alla stessa conclusione ci rimanda la sentenza di allontanamento dei cattivi cristiani, composta da un’affermazione chiara e schietta (omologhìa) fatta di due elementi: anzitutto una dichiarazione di non riconoscimento, espresso così nel discorso di missione: “Chi non mi riconoscerà davanti agli uomini, neanche io lo riconoscerò davanti al Padre mio” (10,33). Poi le parole di condanna del giudizio finale: “Via da me, maledetti, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare’ Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (25,41-45).

Il discorso si conclude con una doppia immagine costruita sul parallelismo antitetico, nello stile della ripetizione letterale tanto cara ai racconti giudei del tempo e tanto usata nel corso del discorso stesso. L’immagine è presentata come il riassunto di tutto il discorso. Sono messi a confronto due destini contrapposti: quelli dei veri e falsi cristiani, che Matteo chiama saggi o stolti come nella parabola delle ragazze invitate a nozze (Mt 25,2). L’antitesi nel nostro brano è triplice: tra il fare e il non fare, tra il saggio e lo stolto, tra la roccia e la sabbia. Anche Luca riporta lo stesso paragone che, anche in lui, non assurge al rango di vera parabola, cioè il puro racconto di una storia priva di allegoria. Egli più esplicitamente riferisce il paragone positivamente a “chi viene a me, ascolta le mie parole e le mette in pratica” (6,47).

Dunque ci presenta chiaramente la responsabilità e l’impegno del credente che viene, ascolta e mette in pratica gli insegnamenti di Gesù. Pone poi chiaramente la costruzione della casa senza fondamenta dello stolto sulla rive di un fiume o di un torrente, dove viene travolta dalla piena straripante improvvisa. Matteo considera il comportamento dell’uomo saggio e dell’uomo stolto: l’uno costruisce la sua casa sullo scoglio, l’altro costruisce sul terreno di riporto, per sua natura friabile. Al tempo di Gesù in Palestina ognuno si costruiva la sua casa da sé con poca o sufficiente perizia. Il risultato appariva quando la costruzione era in pericolo a causa di alluvioni e tempeste, che in Oriente si abbattono improvvise e trascinano via tutto, perché non c’è la vegetazione che ne frena la violenza.

Gesù descrive il fenomeno realisticamente con una serie di tre verbi: abbattersi, urtare, infrangersi. La casa costruita sulla roccia resiste bene, quella costruita sul terreno di riporto crolla, seppellendo tutti gli abitanti (Ez 13,14). Fuori metafora, Gesù vuole dire che chi mette a fondamento della vita il suo insegnamento appena concluso, si mette al sicuro davanti al giudizio finale di Dio. Si assicura la salvezza eterna. Chi rifiuta o ignora questo insegnamento, mette in pericolo la sua salvezza definitiva. Ognuno di noi è salvato esclusivamente dalla parola di Gesù, accettata e messa in pratica. Non ci salverà l’illusione delle belle parole e dei pii desideri.

AUTORE: Oscar Battaglia