Come stordito

Sono uscito dalla chiesa come stordito. Nella modesta chiesa della periferia di Roma avevo concelebrato una messa di commiato a S., 27 anni, morto per un’impennata assurda della sua moto potentissima. A tutto gas, e la moto si ribella, sbatte S. a terra, lo schiaccia. S. era un patito della motocicletta. Lo era come tanti altri suoi amici dei Castelli romani, che stamattina sono tutti presenti in chiesa. Tutti col giubbino di pelle nera. Tutti coi pantaloni di pelle nera. Tutti con la testa rasata e le basette lugubri. Le loro ragazze sono tutte lì, in lacrime, una identica all’altra. I loro volti sono sul modello dei ‘duri’ di un certo cinema. Una comunità di motociclisti: è possibile? Nelle mani di S. hanno intrecciato un rosario e un modellino di quelle moto di grossa cilindrata che in corteo, rombando, l’hanno scortato dall’obitorio alla chiesa. La partecipazione al rito è stata corale, emotivamente sovraccarica: lo si percepiva quasi fisicamente. Sguardi tesi. Tutti in piedi per la durata dell’intera liturgia. E un grande striscione sostenuto da decine di mani che ogni tanto lo sollevavano, lungo il corridoio destro della chiesa gremita. ‘Resteremo sempre insieme’. Ma stamattina in questa chiesa non aleggia nessuna speranza. Il clima è da tragedia, da ultima spiaggia. Dio sembra assente. Non ho mai partecipato ad un’assemblea liturgica insieme così densa e così vuota. Quando il sacerdote celebrante ha invitato l’assemblea, in nome di quel fratello defunto, a coltivare l’accoglienza nei confronti dei deboli, dei diseredati, degli stranieri, s’è come levato un invisibile muro di dissenso; diverse mani hanno tamburellato nervosamente sul legno del banco. Questa è l’ultima generazione di skinheads, le ‘teste rasate’ di qualche anno fa; sembravano scomparse, ma oggi, sull’onda dagli ultimi avvenimenti di cronaca, tornano ad organizzare spedizioni punitive contro i rom, contro i romeni, contro coloro che la loro subcultura identifica tout court come nemici, solo perché stranieri… Al Padre nostro, sono rimasti muti. Non lo conoscevano. Ma che senso avevano per loro le sante parole che pronunciavamo con e per S.? Un Padre nostro nel vuoto. Dopo la benedizione finale (stavolta tutti hanno fatto il segno della croce) si sono stretti intorno alla bara, con le braccia conserte, la testa bassa. Poi all’improvviso uno di loro ha cominciato a piangere forte, e tutti hanno pianto, tutti, fragorosamente, senza ritegno; a volte appoggiandosi l’uno all’altro. Un lungo lamento corale, tetro, appassionato. Poi di nuovo il rombo assordante e aggressivo delle moto di grossa cilindrata che accompagnavano S. al cimitero. E in me un senso amaro di vuoto che non avevo mai conosciuto. Stordito. Non avevo mai inteso Dio tanto lontano e insieme tanto vicino.’ 

AUTORE: Don Angelo Fanucci