El Pays de oro y de azul

Nel corso degli anni ’90 ci sono venuto cinque volte. O forse sei. Poi, dopo la virata del millennio, mai più. Questa è la prima volta dopo il 2000. Come tornare a casaSono qui dal 24 settembre, ad Ibarra, capitale della provincia dell’Imbabura, città di 140.000 abitanti; nella perenne primavera dell’Ecuador, ‘il Paese d’oro e d’azzurro’, mi aspetta un’impresa semidisperata; e mi torna in mente quanto, in un giorno ormai lontano, vidi scritto all’ingresso della Tipografia Gentile di Fabriano, quando ne reggeva le sorti il grande e sfortunato amico Giampiero Antonini: ‘Le cose impossibili le facciamo subito. Per i miracoli ci vuole un po’ più di tempo’. Già. Forse ‘semidisperata’ è poco. Forse bisognerebbe togliere quel prefisso, ma’ si tratta di’ ‘semi’, e se togli anche il seme la speranza va a fondo. A nome della Comunità di Capodarco dell’Umbria, che mi onoro di presiedere, della Fondazione Baldassini alla quale mi onoro di partecipare, a nome della diocesi di Gubbio che voglio sperare di coinvolgere nella follia in questa impresa, e non ‘nonostante’ che sia semidisperata, ma proprio perché lo è’ Oddio, sto decollando!Alla metà degli anni ’80 venne in Italia un giovane prete colombiano, incardinato da tempo nella diocesi ecuadoriana di Riobamba, p. Jaime Alvarez, parroco di Penipe. Penipe è un paesino grande, toh!, quanto Scheggia: 500 anime (quasi tutti ce l’hanno). Ma la parroquia di Penipe, affogata nella bassa quota dei suoi 2.500 m di altitudine, non s’accontenta della vita sonnolenta che gli suggerisce il Rio Chambo, che scorre silenzioso verso là da dove parte il Rio delle Amazzoni; parte; e il Rio delle Amazzoni presto s’immerge nella foresta, determinato a raggiungere l’Oceano Atlantico attraverso la foresta, 13mila km, una bazzecola. Francisco de Orellana li ha percorsi tutti, secoli fa, con il feroce coraggio del ‘conquistador’ d’annata, perché voleva che ai nostri giorni gli venisse dedicata una della strade più importanti di Quito, la capitale. La parroquia di Penipe si articola in una trentina (?) di comunitades, ognuna retta da un catequista campesino, che si arrampicano sui fianchi possenti delle Ande, fino ai 4.000 m, e oltre, così, tanto per facilitare la fatica degli angeli che (immagino) scendono la mattina alle 4 per aprire gli occhi degli uomini che vanno a lavorare i campi, e alla sera alle 7 per chiuderli, stanchi, arrossati. Alla metà degli anni ’80 p. Jaime Alvarez volle sapere quanti invalidi gravi aveva nella sua parroquia. Ne vennero a Penipe solo una parte: 1.400, dicansi millequatrocento. Una volta nella sua parroquia ‘el bocio’, cioè il gozzo, provocava invalidi nella misura in cui coloro che ne erano affeti mettevano al mondo un figlio. Allora venne in Italia, per cercare una qualche risposta. Visitò i grandi ospedali specializzati del nord, con l’unico effetto che le loro dotazioni tecniche l’impaurirono. L’ultimo giorno di permanenza in Italia incontrò noi di Capodarco. E nacque il progetto ‘El pobre ayuda al pobre’, ‘Il povero aiuta il povero’. Lo diceva anche l’Agnese del Manzoni: ‘Se non ci aiuta fra noi poveretti…’ Da allora le nostre iniziative in Ecuador si sono moltiplicate. Ma non avevate abbastanza problemi nelle vostre comunità italiane? Già, ma anche Agnese, vedova e povera, aveva i suoi enormi problemi.

AUTORE: Angelo M. Fanucci