Insegnare o imparare?

Abatjour

No, non intendo censurare l’uso scorretto dei due verbi che vige dalla parti mie: nel vernacolo quotidiano li usiamo come se, invece che antitetici, fossero intercambiabili. “Ah! Tu ’n ce credi? ’N ce credi proprio? E alora te l’amparo io du sta Barognola!!”. N.B. Vi si sconsiglia vivamente, quando doveste trovarvi in un caso del genere, di intervenire per correggere: rischiereste di fare la figura petulante della Maestrina dalla Penna Rossa nel pieno del vociare di un mercatino rionale. Alludo piuttosto al motto irriverente e sacrosanto: “Chi le cose le sa, le studia; chi non le sa, le insegna”. È vero. È stato vero anche per me. Quando, nel 1969, cominciai a insegnare Letteratura e lingua italiana e Letteratura e lingua latina al liceo classico “Mazzatinti” ero un ignorante, a parte la lingua latina, nella quale mi ero dovuto esercitare a lungo, stendendo settimanalmente nella lingua di Cicerone gli appunti delle lezioni dei principali docenti (Teologia dogmatica e Teologia morale): parlavano latino, gli illustri docenti, a noi ragazzi di mille lingue diverse; ma un latino che di illustre non aveva nulla; era sciatto ma comprensibile, maccheronico ma senza formaggio. A parte quest’ultima appendice positiva, non sapevo nulla di nulla. Era stata la facoltà di Lettere dell’Università di Perugia. Frequentavo assiduamente. Il primo esame lo detti con Giugni (Pedagogia) e lo preparai come avevo immaginato che dovesse svolgersi: un colloquio vivace e articolato, quasi un dibattito, a dar prova dell’efficienza delle mie meningi. Niente. Giugni volle sapere la sua pappetta, con l’olio e il sale giusti, per ordine, in fila, non con parole mie ma solo con le uniche parole autorizzate: quelle sue. Presi 22. L’esame successivo, Geografia, con Albertini, lo impostai quasi come quello di Pedagogia: presi 27. Allora tornai a studiare a memoria come facevo in II elementare con la maestra Lucrezia Romeggini Bartoli: presi diciotto 30 tutti in fila. E non imparai niente di niente. Fu facendo scuola che imparai che Dante saliva dall’inferno al paradiso portandosi dentro il fuoco vero, quello della passione politica, che lo “arrostava” dentro. E che Boccaccio non ha nulla di boccaccesco. E che nel Machiavelli, che, in polemica con Donna Fortuna, s’ingaglioffiva nell’amaro far niente di San Casciano, e in Galileo che continuava a scuotere il suo capoccione per sottolineare (sottovoce, please!) che “eppur si muove”, nasceva la cultura delle autonomie. E che Leopardi non è stato quel “fregno buffo” che nella poesia ha trovato tutto quello che la vita gli aveva negato. E che Manzoni non era affatto, come in quegli anni denunciava, tra la giusta indifferenza delle persone serie, quel poveraccio di Moravia: “Un romanziere a tesi”, Manzoni. Su lui bisogna ritornarci.

AUTORE: a cura di Angelo M. Fanucci