Monicelli, grande cultura

abatjour

Sono le 23 di lunedì 29 novembre; la tv ha dato da poco la notizia del suicidio del regista Mario Monicelli. Amaro in bocca. Amarissimo. L’avevo conosciuto di persona solo per pochi minuti, qualche anno fa, e gli avevo detto grazie “per il servizio che aveva reso alla nostra cultura”. E lui mi aveva chiesto: “A che cosa allude?” E io: “A La grande guerra”. Con il suo capolavoro, Leone d’oro al Festival di Venezia nel 1959, Monicelli smitizzò e umanizzò quell’operazione di bassa macelleria che la mia generazione aveva imparato a chiamare la Grande (!?) guerra. Anche io, ultimo dei cinque figli di Adamo Fanucci, da Campitello di Scheggia, ne ero stato toccato da vicino. Babbo i tre anni e mezzo di conflitto se li era fatti tutti, tra il 1915 e il 1918; era partito per il fronte nei giorni del suo 21° compleanno, convinto che quella fosse la cosa giusta da fare. E anche i miei verdi anni ne erano stati convinti: la maestra Lucrezia ci aveva insegnato a cantare col dovuto entusiasmo la Canzone del Piave. Ma babbo non condivideva quell’entusiasmo. Non lo contestava, ma non lo condivideva. Taceva. Mi resi conto del perché quando, bambino, lo sorpresi seduto, con i piedi in una bacinella di acqua tiepida. Intento a rinnovare la fasciatura delle enormi varici che aveva su ambedue le gambe, frutto di tre anni e mezzo di trincea, fango fino all’inguine. La prima nostra contestazione di quell’aggettivo (“grande” guerra) era stata di tipo goliardico, con la storpiatura della Canzone del Piave: “La classe mormorava calma e placida al passaggio / del nostro professore, uomo saggio”: un professore che addirittura “voleva saper tutta la lezione”, e che, di fronte alla classe renitente, “tutto contento / si mise a segnar zeri a cento a cento”. Finale catartico: “Quando fu agli ultimi due zeri / la classe mormorò: / te famo i occhi neri!! Zum zum!”. Goliardia. Quella del film di Monicelli era invece autentica cultura: “Italiani, popolo d’eroi” aveva proclamato Benito. Già, ma per Monicelli  la gente comune ha un segreto tutto suo per fare scelte eroiche: rimanere quella che è. I bulli rimangono bulli (il personaggio interpretato da Gassman) anche quando diventano eroi. Gli imbroglioni di piccolo cabotaggio (il personaggio interpretato da Sordi) continuano a imbrogliare anche di fronte al plotone di esecuzione. Splendido. Poi questa fine, indegna della sua caratura di uomo e di artista. Per “giustificarla” citano quello che lasciò scritto suo padre, suicida anche lui nel 1946: “Non sempre la vita merita di essere vissuta”. Dio mio!, un’Abat jour non basta, bisogna che ci torniamo su!

AUTORE: Angelo Maria Fanucci